“Voglio vivere una vita sola” , l’ultimo romanzo di Francesco Carofiglio, è un libro poetico per l’essenzialità del linguaggio, a tratti magico, in cui figure fiabesche, come il giocattolaio Papa Gontrand ed il barbiere Armando Maniscalco, il bidello Mounsieur Lemaire ci rimandano ad un tempo irrimediabilmente perduto e, perció, di struggente bellezza.
Lo scrittore attraverso la voce e lo sguardo candidi di Violette, la bambina mai nata e tanto desiderata dai familiari, ci introduce nei grandi misteri della vita: il dolore, l’amore, la felicità, Dio, la morte.
Il romanzo, infatti, è percorso dal bisogno di assoluto, di certezze che però nella realtà ci sfuggono, in quanto la legge della vita è il divenire, la mutevolezza, la trasformazione.
È, appunto, Violette, la bambina che non cresce mai, il personaggio a cui è affidato il compito di osservare e di testimoniare tale divenire da un punto di vista esterno.
Non solo, ella è il personaggio che ci introduce nel mondo dell’Arte: infatti i grandi misteri della vita, come i nostri stessi sentimenti, posssono essere raccontati e, dunque, forse compresi soltanto attraverso i versi appassionati di Cyrano, attraverso le ricercate parole di Calvino, attraverso i grandi maestri del cinema come Fellini, Truffout, De Sica, attraverso la magnifica architettura della cattedrale di Chartres.
Violette infatti accompagnando Emma e Leonard, i suoi genitori, si nutre dei loro interessi e quindi di Arte, che affina la sua acuta sensibilità e, conseguentemente, la capacità introspettiva di ciascuno di noi: la bambina ed i suoi fratelli, Jean ed Augustin, ascoltano affascinati le storie narrate e i versi recitati dalla madre, visitano musei e mostre, frequentano biblioteche, assistono a spettacoli cinematografici.
Ma Violette è anche altro: in quanto osservatrice esterna, inascoltata, che accompagna la famiglia nella sua crescita ed evoluzione, è l’espressione dei desideri più reconditi ed inespressi di ciascun componente della famiglia, pur stringendo un rapporto molto intenso e quasi simbiotico con la madre, di cui conosce la parte più segreta ed inaccessibile a chiunque altro.
Violette vorrebbe che il tempo dell’infanzia, quello della felicità, non terminasse mai e , perció, escogita un metodo “personalissimo” per non dimenticare: il ricordario. Sul tavolo della cucina la bambina pone piatti, stoviglie, forchette, soprammobili in ordine sparso e su ogni oggetto incolla un ricordo, per sempre, affinchè i ricordi non siano dimenticati.
Ma il tempo dell’ infanzia trascorre, i corpi dei fratelli si trasformano, la vita fluisce, i sentimenti cambiano e, come spesso accade, il cambiamento, seppur preannunciato da alcuni segnali, ci coglie impreparati e ci sorprende. Seguono, così, i disinganni, le delusioni, il dolore: la morte del cane Javert segna la fine dell’infanzia. Giunge poi la scoperta di alcuni tradimenti che sconvolgono la vita di Violette e la privano delle sue certezze.
La famiglia un tempo felice si disgrega ma, fortunatamente, al dolore subentra l’ accettazione del cambiamento: Jean continua a studiare a New York, Leonard ed Augustin si trasferiscono a Roma. Emma, invece, decide di ritornare a Pluozané, accompagnata da Violette, e di vivere nella casa della sua infanzia posta di fronte al mare, dove un tempo aveva immaginato sarebbe invecchiata con Leonard.
Qui madre e figlia trascorrono la loro estate più felice: la vita riprende a scorrere con un ritmo nuovo, lento che asseconda quello della natura; la serenità ritorna nonostante Emma senta la mancanza dei figli.
Esse si liberano del superfluo, assaporano la libertà, la leggerezza, l’allegria, ascoltano i suoni ed i silenzi della natura, percepiscono la meraviglia ed il respiro dell’Oceano a cui entrambe si affidano per sempre.
Prof.ssa Grazia Raguso